Nel cuore del Piemonte, la Reggia di Venaria racconta un potere che si misura attraverso la forma. Non l’eccesso, ma la simmetria. Non il lusso, ma l’ordine. Dove la luce detta il ritmo, il barocco diventa equilibrio, e la bellezza una nuova disciplina.

Arrivare a Venaria Reale è come entrare in uno stargate . Dopo la periferia torinese, il paesaggio cambia improvvisamente: la strada si apre su una piazza immobile, delimitata da portici e ciottoli lucidi. Davanti, la Reggia. Una distesa di mattoni e stucchi che si allunga senza fretta, disegnando un orizzonte proporzionato. Un salto istantaneo nel passato, dal sapore fiabesco! Qui il potere non si mostra per volume, ma per misura. Voluta nel Seicento da Carlo Emanuele II di Savoia come residenza di caccia, la Reggia di Venaria nasce dal progetto di Amedeo di Castellamonte. Era un’idea ambiziosa: costruire una “città ideale” per la corte, con giardini, scuderie, canali e un borgo satellite. Un secolo dopo, Filippo Juvarra ne riscrive la scenografia e le conferisce un’anima barocca: colonne, proporzioni, prospettive che disciplinano la bellezza. È l’arte del controllo, tradotta in architettura.

Camminando oggi per questi spazi restaurati, si percepisce una tensione sottile tra monumentalità e vuoto. Ogni pietra è al suo posto, ogni particolare risponde a un altro. Eppure, tra le simmetrie perfette, si avverte la fragilità del tempo: quella di un luogo che ha conosciuto il declino, l’abbandono, la trasformazione in caserma, prima di rinascere.

La Galleria di Diana è il cuore visivo del complesso. Lunga quasi ottanta metri, sembra respirare. Il pavimento a scacchi, i marmi, la luce che rimbalza sulle pareti bianche: tutto vibra di un ordine ipnotico. Ogni passo è un’eco, ogni finestra una scenografia. È un luogo che non si attraversa soltanto. In quell’armonia quasi matematica, si percepisce un paradosso: il barocco che, invece di esplodere, si ritrae. Qui la magnificenza è razionale, la bellezza disciplinata. Nei sotterranei, la luce scompare. Le pareti in mattoni assorbono il rumore, la temperatura scende. Si entra nella Galleria dei Ritratti Sabaudi, un archivio visivo del “Regno”: volti severi, corazze lucenti, sguardi fermi. Non c’è emozione, solo intenzione. Ogni posa è un atto politico, ogni dettaglio un messaggio di legittimità. Camminando in quel silenzio, si capisce che il potere non è mai soltanto dominio: è costruzione, rappresentazione, disciplina del proprio mito.

La sala delle carrozze invece, riporta in superficie il movimento. Gli interni in velluto, gli stemmi dorati, le ruote perfette: oggetti immobili che raccontano il viaggio come privilegio. Qui lo spostamento non è esplorazione ma rituale, una coreografia della distanza. Davanti a quei capolavori fermi, si intuisce quanto il potere, anche in movimento, restasse confinato dentro una propria cornice. In una sala laterale, un arazzo racconta una battuta di caccia. Figure minuscole, cavalli lanciati, alberi in fiore. Sotto, un cartello invita a non toccare. Ma la tentazione è forte: toccare per capire, per verificare quanto di quel mondo sopravvive nella materia. Tutto qui parla di un passato che resiste, anche se ha perso la sua voce. Dalla terrazza della Reggia, la vista si apre verso i giardini e oltre, verso la linea delle Alpi. È una prospettiva progettata, quasi teatrale. Juvarra la voleva così: una fuga ottica che proiettasse la grandezza della corte nella natura. Oggi, in quella stessa direzione, si estendono siepi, sentieri e fontane. Il paesaggio è cambiato, ma il ritmo è rimasto.

Fuori, c’è la piazza con la Torre dell’Orologio che segna il confine con il Borgo. Le vecchie caserme oggi ospitano caffè, librerie, mostre. Le strade dove passavano cavalli e servitori ora accolgono famiglie, studenti, turisti. Una cittadina viva che rappresenta un luogo attuale. La bellezza non è più esclusiva, è condivisa. Al tramonto, i mattoni diventano rame e la luce scivola lenta sui portici. Le persone si fermano a guardare, qualcuno fotografa, altri restano in silenzio. La Reggia, immobile, sembra respirare davvero: non come un monolite, ma come un organismo che ha imparato a convivere con la propria memoria. Visitare questo luogo non significa soltanto attraversare la storia dei Savoia, ma comprendere un’idea di potere tradotta in proporzioni e in spazio. Qui la forma è sostanza, e la misura è linguaggio!

È in questo equilibrio — tra il cerimoniale e l’ordine, tra la rappresentazione e la calma — che Venaria Reale rivela il suo segreto: il potere non sta nell’imporre, ma nel durare.




















